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Smart-working: cos’è, quali sono le differenze con il telelavoro e soprattutto chi paga le spese?

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Ultimo aggiornamento del 01.10.2020 | Tempo di lettura ca. 10 minuti

I recenti avvenimenti hanno assurto agli onori della cronaca il concetto di smart-working.

Tale termine trova la propria origine nel mondo anglosassone, ove viene utilizzato per definire un concetto di lavoro più ‘evoluto’, privo dei vincoli tipici di luogo e di tempo propri del rapporto di lavoro subordinato. 


Lo smart-working ha ormai da diversi anni superato i confini dei paesi anglosassoni venendo ‘importato’ negli altri ordinamenti, compresa l’Italia, e trasposto in una serie di previsioni normative e regolamentazioni, che non sempre sono state rispettose dei principi da cui tale istituto nasceva, talvolta restituendone una disciplina fortemente congestionata da preconcetti marcatamente industriali oltre che fortemente limitata nella sua effettiva portata evolutiva.

Come noto, durante l’emergenza epidemiologica causata dal virus Covid-19, l’utilizzo dello smart-working ha avuto in Italia un’inattesa, oltre che insperata, crescita repentina.

Invero, le disposizioni emergenziali promulgate dal Governo, in uno con le scelte organizzative di numerose aziende trovatesi improvvisamente a dover fronteggiare e gestire una situazione emergenziale senza precedenti, hanno individuato lo smart-working quale primario strumento per garantire la prosecuzione delle attività lavorative oltre che quale più efficace misura per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.

Fatta tale doverosa premessa, è prima di tutto necessario comprendere e capire cosa sia quello che viene generalmente (e a volte impropriamente) definito come ‘smart-working’.

Lo smart-working è una specifica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che permette al dipendente, salvo che vi sia un espresso e diverso accordo tra le parti, di scegliere con ampia e autonoma il luogo e i tempi di svolgimento delle proprie mansioni.
Detta autonomia, seppur riconosciuta ex lege, ovvero dalla Legge n. 81/2017 che ha introdotto lo smart-working in Italia, deve essere comunque contingentata – anche in difetto di specifiche limitazioni contrattuali – dai generali canoni di correttezza e buona fede, che devono ispirare e orientare l’esecuzione di ogni contratto, compreso quello di lavoro subordinato: l’esercizio delle facoltà riconosciute dalla legge non esonera infatti il dipendente dall’obbligo di tenere in considerazione non solo le esigenze organizzative aziendali ma anche tutti gli ulteriori e specifici interessi datoriali.

Con riferimento invece alle generali previsioni di legge che regolano il rapporto di lavoro, l’abbattimento di quei vincoli di luogo e di orario, che di norma costituiscono una delle peculiarità del rapporto di lavoro subordinato (rispetto al rapporto di lavoro autonomo), non travolge l’onere delle parti di rispettare i limiti di durata massima del lavoro giornaliero e settimanale, che continuano ad essere disciplinati dalle normali previsioni di legge e/o di contratto collettivo. 

Ciò detto, occorre distinguere lo smart-working dal ‘telelavoro’, anche detto home-working, istituto che se ne separa per alcune sostanziali differenze e che trova la propria disciplina principale nell’Accordo Interconfederale del 9 Giugno 2004.

Invero, lo smart-working come l’home-working costituiscono modalità di svolgimento della prestazione di lavoro che sono accomunate dalla possibilità di svolgere la prestazione lavorativa a distanza e in un luogo collocato al di fuori dell’organizzazione aziendale.

Con il termine ‘telelavoro’ si fa tuttavia riferimento alla modalità di svolgimento di una prestazione lavorativa effettuata da un luogo ‘fisso’ collocato al di fuori dell’azienda. 

Al contrario, con il termine smart-working, ci si riferisce a una prestazione lavorativa resa da luoghi che possono variare e che non sono predeterminati ma selezionati in base alla libera scelta o alle specifiche necessità del dipendente. Sotto tale profilo, lo smart-working fa ugualmente salva la possibilità per le parti di concordarne eventuali limitazioni nell’intento di salvaguardare la sicurezza del dipendente, la privacy dei clienti ovvero le informazioni e il patrimonio aziendale.

A seguito dell’emanazione della disciplina sullo smart-working, di cui alla già citata Legge n. 81/2017, gli interpreti si sono a lungo interrogati su quelli che rappresentano gli aspetti che, anche nel corso della pandemia, hanno suscitato il maggior numero di perplessità tra i dipendenti e gli operatori del settore.

Tra questi vi rientra certamente quella che riguarda le modalità di ripartizione dei costi e delle spese inerenti allo svolgimento dell’attività di lavoro da remoto.

Tale profilo è stato oggetto di ampio dibattito anche all’interno di ordinamenti considerati più evoluti di quello italiano, in quanto già orientati verso una impostazione del lavoro subordinato focalizzata più sulla performance del singolo lavoratore, piuttosto che il mero svolgimento quantitativo (su base oraria) di una determinata attività lavorativa.

Anche di recente è stata ripresa dalle cronache locali la decisione del Tribunale Federale Svizzero che ha condannato il datore di lavoro a rifondere e a farsi carico per il futuro di una quota dei costi sostenuti dal dipendente per l’affitto, il consumo elettrico e la connessione internet della propria abitazione per tutto il periodo in cui quest’ultimo era stato costretto a lavorare da casa, non potendo disporre di una postazione lavorativa nella sede della società.

Sebbene non si abbia contezza delle peculiarità del caso concreto, tale decisione è destinata a riaprire un dibattito mai del tutto concluso sulle problematiche – ormai di stretta attualità – che riguardano le nuove forme e modalità di lavoro generate dalla sempre più accentuata digitalizzazione delle aziende e delle attività di lavoro oltre dall’emergenza Covid-19.

Al riguardo, la nostra disciplina del telelavoro prevede in modo chiaro che – fatte salve le ipotesi in cui vi sia un diverso accordo delle parti che preveda l’uso di strumenti propri da parte del telelavoratore – il datore di lavoro è responsabile della fornitura, dell’installazione e della manutenzione degli strumenti che vengono utilizzati dal dipendente per lo svolgimento della propria attività e deve farsi carico dell’onere, in caso di telelavoro svolto con regolarità, di provvedere ‘alla compensazione o copertura dei costi direttamente derivanti dal lavoro’, in particolare quelli relativi alla connettività.

Identica chiarezza non si individua tuttavia nella disciplina dello smart-working, dove è stabilito solo un più generico e non del tutto intelligibile obbligo per il datore di lavoro di garantire la ‘sicurezza’ e il ‘buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa’.

Sotto tale profilo, è compito degli interpreti chiarire la portata normativa dell’anzidetta previsione che non pone alcun espresso obbligo in capo al datore di lavoro di rimborsare ai dipendenti interessati i costi sostenuti per lo svolgimento dell’attività lavorativa da remoto, lasciando, dunque, spazio alla libera iniziativa negoziale delle parti che avranno pertanto facoltà di regolamentare autonomamente la ripartizione degli oneri economici connessi alla prestazione in modalità smart.

E’ prevedibile che tale esercizio possa portare alla conclusione di accordi secondo i quali le parti – anche alla luce dell’attuale stadio dell’evoluzione tecnologica – decideranno di optare per una ripartizione degli oneri connessi allo smart-working che, nel contemperare gli interessi in gioco, onerino il datore di lavoro dei costi più consistenti – quali la fornitura di tutti gli strumenti tecnologici tramite i quali viene concretamente svolta l’attività di lavoro (ad esempio, smartphone, laptop, ecc..) – ponendo invece a carico del dipendente solo i costi residuali e più contenuti, come ad esempio quelli per l’utilizzo di una connessione internet che ben potrà essere quella di normale uso domestico (quindi già installata) ovvero anche altra linea agevolmente accessibile al dipendente (hotspot etc.).

Ciò osservato, pare chiaro che nei prossimi mesi lavoratori ed aziende non potranno esimersi dal regolare tutti quei profili dello smart-working non espressamente e specificamente disciplinati dalla legge, negoziando quegli accordi e condizioni che la situazione emergenziale ha ad oggi solo rinviato.

Diversamente, in assenza di tale regolamentazione, l’incertezza interpretativa e le lacune lasciate dalla norma attualmente vigente rischiano di determinare la nascita di un elevato numero di procedimenti contenziosi che potrebbero erodere, in maniera anche consistente (se non integrale), quello che potrebbe rappresentare un benefit per il dipendente e contestualmente un motivo di risparmio per l’azienda, ove implementato all’interno di una organizzazione idoneamente e correttamente strutturata.

Autori:
Massimo Riva - Associate Partner
Stefano Belloni - Senior Associate

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Massimo Riva

Avvocato

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