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Permesso di soggiorno per volontariato: la Corte di Giustizia vieta condizioni aggiuntive sulla prova delle risorse

​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​Ultimo aggiornamento del 17.12.2025 | Tempo di lettura ca. 5 minuti

Con la sentenza del 13 novembre 2025, pronunciata nella causa C-525/23, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (“CGUE”) ha chiarito un aspetto cruciale in materia di permessi di soggiorno per motivi di volontariato: gli Stati membri non possono imporre requisiti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla Direttiva (UE) 2016/801, in particolare, per quanto riguarda la prova della disponibilità di risorse economiche. 

Il c​aso

Un cittadino di un Paese terzo ha chiesto in Ungheria il rinnovo del permesso di soggiorno, originariamente rilasciato per motivi di studio, per svolgere attività di volontariato. Dal momento che, ai sensi dell’articolo 7 della Direttiva (UE) 2016/801, il richiedente è tenuto a dimostrare di disporre, per l’intera durata del soggiorno, di risorse economiche sufficienti sia per il proprio sostentamento che per il ritorno nello Stato di provenienza, nella domanda di rinnovo il richiedente ha dichiarato che un familiare, identificato come lo zio, si sarebbe impegnato a garantirgli le risorse necessarie durante la permanenza in Ungheria.

Le autorità nazionali hanno inizialmente respinto la richiesta, ritenendo non adeguate le garanzie fornite da un parente non qualificabile come “familiare” ai sensi della normativa interna. Successivamente, tale impostazione è stata superata dai giudici ungheresi i quali hanno stabilito che la qualifica del soggetto che assicura il sostegno economico è irrilevante e hanno concentrato la propria attenzione esclusivamente sul concetto di “risorse” e sulla loro effettiva disponibilità a favore del cittadino di un Paese terzo. 

La Corte Suprema ungherese ha pertanto stabilito che, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno anche per svolgere attività di volontariato, il cittadino di un Paese terzo debba chiarire se le somme ricevute vadano qualificate come reddito oppure come patrimonio e debba dimostrare di poterne disporre in modo pieno e illimitato, come se fossero proprie, così da garantire l’effettiva sussistenza delle risorse richieste dalla normativa. Il richiedente nel caso di specie ha qualificato l’aiuto finanziario fornito da suo zio dapprima come un prestito, poi come un atto di liberalità.

Dopo un lungo contenzioso, l’Alta Corte di Budapest ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia mediante proposizione di alcuni quesiti che la medesima CGUE, nella sentenza che conclude la causa C - 525/23, così riassume:
  • da un lato, si chiede di accertare se l’art. 7 della Direttiva (UE) 2016/801 osti a una prassi nazionale che, per il rilascio del permesso di soggiorno per volontariato, impone requisiti aggiuntivi sulla prova delle risorse economiche (come l’origine delle risorse, il titolo di acquisizione e la disponibilità illimitata), oltre quanto previsto dalla direttiva;
  • dall’altro, si chiede se, in virtù del principio del primato del diritto dell’Unione, tale contrasto con la Direttiva debba essere escluso anche laddove tali requisiti derivino da una giurisprudenza nazionale consolidata e vincolante, emanata da un organo giurisdizionale supremo.

La decisione della Corte di Gi​ustizia

La Corte di Giustizia ha chiarito che il diritto dell’Unione prevede condizioni tassative per l’ingresso e il soggiorno per volontariato di cittadini di Paesi terzi.

In particolare, la CGUE evidenzia che gli Stati membri sono tenuti a rilasciare il permesso di soggiorno per motivi di volontariato al richiedente che soddisfi, da un lato, le condizioni generali stabilite dall’art. 7 della Direttiva (UE) 2016/801, e, dall’altro, i requisiti specifici per l’ingresso di volontari sanciti dall’art. 14 della medesima direttiva. Di conseguenza, non possono essere introdotte a livello locale condizioni supplementari per tale rilascio, come verifiche sulla natura o provenienza delle risorse dichiarate.

Quanto alla nozione di “risorse sufficienti”, la CGUE rileva che, oltre ad avere ampia portata, essa è autonoma e deve essere interpretata in modo uniforme nell’UE. L’esame, pertanto, deve limitarsi a verificare che il richiedente possa effettivamente disporre delle risorse, senza ulteriori indagini sulla loro origine, così da adempiere alla finalità della direttiva: facilitare l’ingresso e il soggiorno dei volontari negli Stati membri. 

Per quanto riguarda il principio del primato del diritto dell'Unione, questo impone che le norme europee prevalgano su quelle nazionali e che le istituzioni nazionali sono tenute a dare pieno effetto alle disposizioni europee, in modo che il diritto nazionale non indebolisca l'efficacia delle norme dell'Unione. Come sottolineato dalla CGUE nella sentenza Global Ink Trade (C-537/22) dell'11 gennaio 2024, anche quando uno Stato membro invoca disposizioni di diritto interno o la consolidata giurisprudenza nazionale, queste non possono compromettere l'unità e l'efficacia del diritto dell'Unione.

Di conseguenza, rileva la Corte di Giustizia, nel caso di specie, il giudice del rinvio sarà tenuto a seguire l’interpretazione fornita dalla CGUE, anche se questo significa discostarsi dalla giurisprudenza della Corte Suprema ungherese, che sarebbe vincolante in forza del diritto nazionale.

La Corte di Giustizia conclude pertanto che il principio del primato si applica anche quando una prassi nazionale, derivante da una giurisprudenza di un organo giurisdizionale di rango supremo, impone requisiti aggiuntivi per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di volontariato, oltre quanto previsto dalla normativa europea.

La normativa itali​​ana

In Italia, la Direttiva (UE) 2016/801 sulla disciplina dell’ingresso e del soggiorno per attività di volontariato di cittadini di Paesi terzi è stata recepita con il D. Lgs. n. 71/2018 che ha integrato le previsioni dell’art. 27 bis del D. Lgs. 286/1998 (Testo Unico sull’Immigrazione), a sua volta introdotto nel 2007. Recentemente, l’art. 27 bis Testo Unico dell’Immigrazione è stato ulteriormente riformato dal D.L. n. 146, emanato il 3 ottobre 2025, il quale ha previsto che il provvedimento ministeriale che regola l’ammissione di giovani volontari stranieri a programmi di interesse generale e utilità sociale sarà ora emanato ogni tre anni, anziché annualmente, in linea con la tempistica degli altri decreti sulle quote di ingresso.

Ai sensi della normativa citata, per poter svolgere attività di volontariato in Italia, il cittadino di un Paese terzo deve avere un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, e deve sottostare alla verifica di requisiti quali l’appartenenza dell’organizzazione promotrice di un programma di volontariato a una categoria che svolga attività senza scopo di lucro e di utilità sociale, la stipula di un’apposita convenzione tra lo straniero e l’organizzazione promotrice del programma delle attività di volontariato e l’assunzione della piena responsabilità di quest’ultima per la copertura delle spese relative al soggiorno del volontario. 

Sarà, pertanto, l’organizzazione promotrice del programma di volontariato a dover presentare la domanda di nulla osta presso lo Sportello unico per l’immigrazione presso la Prefettura-Ufficio territoriale del Governo competente. 

Conside​​​​​​​​​​​razioni finali

La sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-525/23 rafforza la tutela dei cittadini di Paesi terzi che intendono svolgere volontariato nell’UE, riducendo il rischio di interpretazioni restrittive da parte delle autorità nazionali. Gli operatori, infatti, devono adeguare le rispettive procedure nazionali, evitando richieste di requisiti e/o evidenze aggiuntive non previste dalla direttiva.

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