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L’inopponibilità all’INPS della rinuncia all’indennità sostitutiva del preavviso

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Ultimo aggiornamento del 08.06.2021 | Tempo di lettura ca. 4 minuti


Con sentenza del 13 Maggio 2021, la Corte di Cassazione si è espressa su una questione che viene spesso affrontata con leggerezza da alcune aziende e operatori del settore i quali, di frequente, non pongono la dovuta attenzione alle problematiche che possono sorgere in conseguenza di determinati avvenimenti che riguardano la cessazione del rapporto di lavoro.

In particolare, la pronuncia in esame tratta dell’imponibilità contributiva dell’indennità sostitutiva del preavviso dovuta al lavoratore licenziato, imponibilità che può sussistere anche nell’evenienza in cui al licenziamento intimato si sostituisca, per volontà delle parti, una risoluzione consensuale del rapporto.

Al riguardo, è sempre necessario ricordare che l’assunzione di un lavoratore subordinato genera un duplice rapporto di tipo obbligatorio, ovvero, quello retributivo, che ha come parti il datore di lavoro e il prestatore d’opera, e quello previdenziale, che ha come parti il datore di lavoro e l’ente previdenziale (INPS) e che è costituito ex lege, risultando indisponibile alla volontà - anche concludente - del datore di lavoro e del singolo lavoratore.

Tali rapporti, come detto, pur inerendo ad un unico soggetto predeterminato (il lavoratore) sono da considerarsi rapporti del tutto autonomi e distinti. Da ciò consegue che, mentre l’obbligazione retributiva può essere influenzata dalle scelte e dall’accordo delle parti, l’obbligazione contributiva nasce ed è regolata esclusivamente dalla legge e sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore di lavoro siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero il lavoratore vi abbia rinunziato.
L’alterità del rapporto contributivo rispetto a quello retributivo è infatti stabilita dalla legge e, in particolare, dall’articolo 12 della Legge 30 Aprile 1969, n. 153. Esso detta il principio di ‘onnicomprensività della retribuzione’ individuando quale retribuzione imponibile per il calcolo dell’obbligazione contributiva ‘tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro’.

Ciò comporta che deve essere considerato ‘retribuzione’ da un punto di vista previdenziale non solo quanto effettivamente ricevuto dal singolo lavoratore ma anche quanto lo stesso avrebbe astrattamente avuto diritto a ricevere in forza della legge, del contratto individuale o di quello collettivo.

Immediata conseguenza di quanto sopra è che la base imponibile per la determinazione del reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi può differire anche in maniera rilevante rispetto a quella individuata dalla libera volontà delle parti, anche solo per fatti concludenti.

La sentenza in esame non fa altro che applicare detto principio e, preso atto dell’accertamento operato dalla Corte d’Appello territoriale – che aveva rilevato l’assenza di revoca del licenziamento – ha ribadito e applicato il principio ormai consolidato secondo il quale ‘sul fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva, che ha natura di obbligazione pubblica nascente ex lege, non può incidere in alcun modo la volontà negoziale, che regoli in maniera diversa l’obbligazione retributiva’.

In conseguenza di quanto sopra, la Suprema Corte ha affermato che il diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva del preavviso e la conseguente obbligazione contributiva sorgono nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia. Successivamente, qualora il lavoratore licenziato rinunci a detta indennità, tale rinuncia non potrà avere effetto sull’obbligazione pubblicistica, preesistente alla rinuncia e ad essa indifferente dal momento che il negozio abdicativo proviene da soggetto (il lavoratore) diverso dal titolare INPS.

In realtà, non conta che qualche settimana dopo il licenziamento, il dipendente sottoscriva un accordo con il proprio datore di lavoro, in cui si prevede l’erogazione di un incentivo all'esodo e una contestuale esplicita rinuncia al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. Secondo la Corte di Cassazione, il rapporto si deve, infatti, considerare risolto col ricevimento da parte del dipendente della lettera di licenziamento, contenente anche la comunicazione del diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. E così, per i Giudici di legittimità, la transazione, intervenuta tra datore di lavoro e lavoratore, deve essere considerata del tutto estranea al sotteso rapporto contributivo.

Sebbene la Corte di Cassazione abbia affrontato in maniera abbastanza superficiale la questione circa la intervenuta revoca per facta concludentia operata dalle parti del rapporto di lavoro in sede di accordo transattivo, le ragioni dell’INPS paiono aver trovato forza proprio in detta mancanza.

Tale omissione ha, infatti, dato modo alla Suprema Corte di rilevare che, nella sostanza, le parti del rapporto di lavoro avevano tentato di riqualificare – per via convenzionale – il ‘titolo’ della risoluzione del rapporto di lavoro, ritenendo che tale riqualificazione fosse opponibile anche a un soggetto terzo quale è l’INPS, esclusa invece dai Giudici di legittimità.

Conseguentemente, nella fattispecie analizzata dalla Corte di Cassazione, il datore di lavoro è stato condannato a corrispondere all’INPS la contribuzione sull’indennità di mancato preavviso per il licenziamento di oltre 90 dirigenti tra il 2012 e il 2013, per un importo superiore a 6 Milioni di Euro.

Pur ritenendo necessaria una lettura più approfondita degli atti e dei documenti di causa oltre che delle decisioni dei precedenti gradi di giudizio, attese le peculiarità della fattispecie esaminata, a parere di chi scrive la decisione della Suprema Corte pare impeccabile.

Quanto sopra vale soprattutto alla luce di quella che appare essere una gestione forse eccessivamente superficiale e, si permetta, un po’ ‘maldestra’ degli accordi transattivi conclusi in seguito alla cessazione dei rapporti di lavoro oggetto della vicenda.

Autori:
Massimo Riva - Associate Partner
Stefano Belloni - Senior Associate

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