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Le clausole hardship e l'aumento dei prezzi delle materie prime

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Ultimo aggiornamento del 28.10.2021 | Tempo di lettura ca. 4 minuti


Il tema dell'aumento dei prezzi delle materie prime sta occupando le caselle di posta degli addetti ai lavori del settore della distribuzione e non solo le loro. La ripartenza post-Covid, oltre a realizzare una robusta ripresa economica (l’Ocse stima un doppio rimbalzo dell’economia italiana per quest’anno ed il prossimo, rispettivamente del 5,9% e del 4,1% dopo il crollo dell’8,9% nel 2020) porta quindi con sé anche un serie di inconvenienti logistici legati ad una mancanza di materie prime e di forniture più in generale.

Di fronte a questo quadro si inserisce il tema giuridico della possibilità o meno di rinegoziare contratti di durata a fronte del sopraggiungere di un evento che cambia l’equilibrio nei contratti (nella fattispecie, l'aumento oltre misura dei costi di una prestazione, o la difficoltà di reperire la materia prima da canali di fornitura alternativi), ritenuto eccezionale ed imprevedibile dal venditore. In alcuni contratti vengono inserite le cosiddette "hardship clauses", clausole specifiche per regolamentare questo caso di forza maggiore che stiamo esaminando. 

Che destino hanno però i contratti i quali non contengono una clausola fatta su misura?

Il Codice Civile italiano offre strumenti giuridici in grado di far fronte solo in parte alle sfide che si pongono di fronte a tali situazioni. Il rimedio classico dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione sembra non adatto a regolare tali situazioni, in quanto si riferisce ad ipotesi in cui la prestazione diviene impossibile, eventualmente o tutta temporaneamente (art. 1256 c.c.) oppure una parte ma in via definitiva (art. 1258 c.c.). 

Esso, pertanto, non viene in rilievo nei casi di aumento del "costo" di una prestazione che resta pur sempre possibile e che può anche essere temporaneo, casi nei quali continua nondimeno a valere il principio "pacta sunt servanda" (art. 1372 c.c.). D'altra parte, il Codice Civile, solo per determinati contratti (contratto di appalto, art. 1664 c.c., contratto di affitto commerciale, art. 1623 c.c.), prevede uno specifico diritto delle parti all’adattamento del contratto, qualora in sede di esecuzione del rapporto sopravvengano fattori che cambino l'equilibrio tra le prestazioni contrattuali. In tutti gli altri casi, invece, manca una disposizione generale che dia la possibilità di riaggiornare le condizioni contrattuali al mutato contesto economico nel quale esso contratto continua a spiegare la sua efficacia. 

L'unico rimedio generale spettante alla parte svantaggiata da un sopravvenuto straordinario ed imprevedibile squilibrio contrattuale è la risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.): rimedio estremo, però, che di fatto costringe la parte svantaggiata a restare legata al contratto fino a quando la stessa davvero "non ne può più" (ed è discutibile quando questo caso si verifica). 

D’altro lato la Convenzione di Vienna delle Nazioni Unite del 1980 sui contratti di compravendita internazionali (CISG) prevede, nel caso in cui si verifichi un impedimento alla prestazione tale da andare oltre la sfera di controllo della parte, senza che tale impedimento potesse ragionevolmente essere ragionevolmente tenuto in considerazione al tempo della conclusione del contratto né possa essere altrimenti superato, solo un’esclusione della responsabilità della parte tenuta a tale prestazione, e ciò solo fintantoché perdura tale impedimento (art. 79). Non si prevede invece alcun obbligo delle parti di rinegoziare le condizioni contrattuali. 

A questa carenza normativa sembra però ora iniziare a porre rimedio la giurisprudenza italiana. Già nella sua Relazione tematica dell'08.07.2020, la Cassazione italiana ha delineato i contorni di una nuova "fattispecie", meno estrema rispetto all'impossibilità e all'eccessiva onerosità sopravvenuta: essa ha infatti stabilito un obbligo delle parti di procedere alla rinegoziazione del contratto squilibrato (obbligo desunto a sua volta dal dovere delle parti di comportarsi secondo buona fede e nel rispetto del principio di solidarietà, ai sensi dell'art. 2 Cost e dagli artt. 1175 e 1375 c.c.). 

I contraenti sono tenuti a trattare in buona fede e a condurre a termine la trattativa pervenendo al risultato, sia esso l’accordo per la prosecuzione del rapporto oppure, ove ciò risulti ad entrambe le parti più conveniente, per il suo scioglimento. In particolare, qualora le variate circostanze attengano ai costi indispensabili ad eseguire la prestazione (come nel caso dell’aumento delle materie prime per produrre un bene da vendere), l’adattamento del contratto può condursi o attraverso una rimodulazione delle modalità della prestazione oppure mediante una revisione al rialzo dei costi, con incremento del prezzo finale. Inoltre, nel caso in cui una parte interrompa ingiustificatamente le trattative per la rinegoziazione del contratto, si ammette il ricorso al giudice (ex art. 2932 c.c.), al fine di ottenere una sentenza che tenga luogo della mancata rinegoziazione tra le parti. 

Centrale risulta, in questo caso, la valutazione, da parte del giudice, dell’attività di contrattazione svolta dalle parti prima dell’interruzione del processo rinegoziativo, potendo da esso residuare gli elementi per decidere come e in che misura riequilibrare con sentenza il contratto.

Il consiglio pratico è in ogni caso quello di tentare la rinegoziazione del contratto, per i contratti già conclusi. Per un contratto ancora da concludere invece vale la pena inserire delle clausole specifiche, non solo in ambito internazionale, dove sono prassi da molto tempo, ma anche in ambito domestico. Vale la pena anche effettuare una revisione delle proprie Condizioni Generali ed inserire in queste della clausole per regolamentare le conseguenze della Pandemia (oltre ad eventi futuri oggi imprevedibili). 

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