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Cessazione definitiva dell’attività d’impresa e legittimità del licenziamento della lavoratrice in maternità

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​Ultimo aggiornamento del 19.01.2024 | Tempo di lettura ca. 4 minuti



La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, si è espressa in materia di cessazione dell’attività d’impresa quale causale legittimante il licenziamento della lavoratrice in maternità. 

Come noto, l’art. 54, co. 3, D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (c.d. “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità") contempla i seguenti casi ai quali non si applica il divieto di licenziamento della lavoratrice durante il periodo intercorrente tra l’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del figlio o della figlia. 

In primo luogo, una causale legittimante il licenziamento della lavoratrice durante il periodo di maternità è la colpa grave, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro: in tal senso, pare opportuno richiamare il disposto della recente sentenza della Cassazione 20 dicembre 2023, n. 35617, secondo cui affinché la “colpa grave” della lavoratrice sia tale da giustificare il licenziamento entro l’anno di età del figlio, non rileva accertare la mera sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo, essendo necessario verificare l’effettiva presenza della diversa colpa specificatamente prevista dal predetto art. 54. In secondo luogo, il divieto di licenziamento non si applica qualora sia ultimata la prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o intervenga la risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine. Infine, costituiscono causali legittimanti il licenziamento della lavoratrice in maternità sia l’esito negativo della prova, ove prevista, sia, appunto, la cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta. 

Assume rilevanza evidenziare l’indubbia essenzialità della tutela prevista dal nostro ordinamento nei confronti delle lavoratrici contro i licenziamenti intimati a causa del matrimonio o durante la maternità. Questo allo scopo di sensibilizzare i datori di lavoro e dissuaderli da possibili comportamenti che porterebbero alla cessazione del rapporto di lavoro in una situazione delicata quale la maternità. 
Il recente caso della lavoratrice sul quale si è pronunciato la Corte di Cassazione è incentrato su un licenziamento irrogato dal fallimento della società datrice durante la fruizione del congedo obbligatorio per maternità. 

Il Tribunale di Arezzo, in primo grado, aveva accolto la domanda della lavoratrice e aveva dichiarato la nullità del licenziamento, condannando la curatela fallimentare alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. Il Tribunale aveva infatti ritenuto che la dichiarazione di fallimento non fosse sufficiente a configurare la cessazione dell’attività aziendale, ai fini della deroga al divieto di licenziamento.

Alla stessa conclusione giunge poi la Corte d’Appello di Firenze, che accoglie la predetta domanda e dichiara la nullità del licenziamento, dal momento che non era emerso, agli atti di causa, che si fosse verificata la cessazione totale dell'attività di impresa.

Ma è il terzo grado di giudizio, in ultima istanza, a non lasciare più alcuno spazio a fraintendimenti: la Corte di Cassazione confermava la nullità del licenziamento irrogato nei confronti della lavoratrice poco dopo il rientro dal periodo di congedo di maternità obbligatorio e prima che il figlio compisse un anno di età, giustificato dalla società datrice di lavoro con l’intervenuta dichiarazione del fallimento dell’azienda.

Secondo gli ermellini, la sola effettiva cessazione dell’attività d’impresa avrebbe potuto rappresentare l’unico motivo legittimante il licenziamento della lavoratrice madre prima del compimento di un anno di età del figlio. Peraltro, il concetto di “cessazione dell’attività” va inteso in senso sostanziale e rigoroso: infatti, al fine di giustificare il licenziamento, deve essere esclusa dal perimetro operativo della cessazione di azienda “ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga”.

Nel caso in esame, infatti, erano in corso attività conservative – e non di sua liquidazione – da parte dell’impresa al momento del recesso; pertanto, non sussistevano i presupposti per procedere ad un licenziamento.

Per tal motivo, la Cassazione ha dichiarato la nullità del licenziamento, rigettato il ricorso proposto dal fallimento e confermato quanto la giurisprudenza ponga sempre particolare attenzione al fattore di rischio della maternità e dello stato di gravidanza delle lavoratrici.

Il ragionamento del giudice sembra essere chiaro e trasparente. Il licenziamento della lavoratrice madre prima del compimento di un anno del figlio deve essere una extrema ratio, una scelta obbligata dal venire meno della persona giuridica e, pertanto, un effettivo fallimento.

Il giudice ci ricorda che una lettura della norma – in tal caso dell’art. 54 del predetto D.lgs., 26 marzo 2001, n. 151 – che privilegi la tutela dei diritti della lavoratrice madre rispetto ai diritti patrimoniali rispecchia sia il principio costituzionale sancito dall’art. 37 Cost. che riconosce, nelle condizioni di lavoro, una speciale e adeguata protezione alla madre e al bambino per l’adempimento dell’essenziale funzione familiare, sia il principio di uguaglianza e il diritto al lavoro previsti, rispettivamente, dagli artt. 3 e 4 del testo costituzionale. 

In conclusione, si può ragionevolmente sostenere che tanto il contesto socioeconomico, quanto i valori meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, costituiscono due punti cardine che non devono essere mai persi di vista, anche qualora la società si trovi a dover valutare una chiusura.

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